Paolo Rolli e lo sviluppo del classicismo arcadico-rococò

Anche Paolo Rolli iniziò la sua carriera poetica sotto la guida del Gravina (che seguí nella scissione d’Arcadia) e da lui riprese il principio della poesia creatrice di favole ammaestratrici, della poesia «maga, ma salutare». Solo che, nel trionfante gusto arcadico-rococò, egli volse istintivamente ben presto[1] il severo didascalismo del maestro nel senso edonistico di una poesia che

risorga in vaghe favole

sollievo a porgere fra cure gravi

e gioia all’ozio di agitate menti

e si proponga di operare con la sua arte

a render miti

ed a scemar con tocchi armoniosi

i turbati pensieri ed a sgombrare

dubbi angosce timor tristezze e pene.[2]

Poetica edonistica che, nell’utile dulci oraziano tante volte preso e ripreso nel Settecento, riduce lo stesso «utile» ad un facile rasserenamento di animi già disposti all’idillio e a un gusto di esercizio piacevole dei propri sentimenti.

Ma il Rolli riprese dall’insegnamento graviniano anche l’attenzione all’antica poesia, ai poeti greci e latini (soprattutto Anacreonte, Orazio e gli elegiaci), a cui egli guardò, piú del Metastasio, come ad esemplari di un mondo poetico perfetto da imitare nelle sue qualità di concisione plastica, di forma lucida e impeccabile, specialmente nella rappresentazione delle cose e delle figure umane nella loro sensibile e affascinante evidenza. Scuola dei classici che, confortando la sua tendenza ad un’arte visiva e plastica, dava, insieme al suo amore razionalistico di ordine e di chiarezza, una diversa consistenza allo stesso canto, da lui ancor tanto cercato nella sua poesia, distinguendolo nettamente dal canto secentesco e dello stesso De Lemene[3] perché inquadrato e sostenuto da un gusto di organicità, di accordo fra valori fonici, sentimentali e figurativi: soprattutto di accordo fra canto e figura, ché meno sincero e fecondo fu in lui il vero canto melodrammatico, la poesia della sensibilità patetica, il gusto della rappresentazione di azioni sentimentali, delle sottili «modificazioni del cuore» nel senso metastasiano.

E infatti la sua abbondante produzione di melodrammi è quanto mai scadente e fu poco apprezzata da lui stesso, che in quanto scrittore teatrale si considerava «parolaio in musica». E nelle stesse Elegie piú che l’interesse psicologico, il disegno dei sentimenti amorosi (e si ricordi che il Rolli voleva riprendere la «molle elegia» ma «spogliata di lagrime e sospiri»), domina il rilievo delle figure femminili nella loro bellezza ed eleganza e semmai il movimento patetico è tutto tradotto in un gesto, in un atteggiamento ben visibile, piú che nelle parlate liriche dei personaggi.

Anche questa tendenza alla rappresentazione evidente di oggetti e persone aveva una certa giustificazione nell’insegnamento graviniano che incoraggiava ad adoperare «parole che portano in seno immagini sensibili ed eccitano in mente nostra i ritratti delle cose singolari»[4] e a rendere le cose e le figure con la maggiore evidenza possibile. Ma soprattutto corrispondeva ad una esigenza del gusto arcadico-rococò che sempre piú tendeva a quel rilievo di oggetti e figure insito nella poetica arcadica e ora accentuato dallo spirito dell’insorgente sensismo.

Fin dalle prime canzonette romane il Rolli aveva cercato di appoggiare la piacevole melodia, e i ritmi poco complessi, a particolari pittoreschi, a cose colorite e spiccate, simboli concreti di piacere e di spontaneità:

Già pria dell’altre frutta

spuntò sulla collina

la verde mandolina

sollecita a fiorir;

e la cerasa anch’ella,

che fiorí dopo quella,

già la sua vesta pallida

comincia a colorir.

Come, nella stessa Primavera, ci colpisce il nitido spicco di questo quadretto di caccia:

Or dal varcato mare

appena si riposa

la quaglia numerosa,

che accendesi d’amor;

fiutando, il can da lunge

la siegue, la raggiunge,

e con la zampa in aria

fa cenno al cacciator.

E proprio nel celebre Inverno si può notare come al fascino di quella voce melodica, limpida e lieta, e al sentimento di piacere che vi si esprime, sia indispensabile, piú che un forte approfondimento di sentimenti, la precisazione di figurine sensibili, di. colori poco vistosi, ma ben distinti, di scenette cosí acute e sensibili: il faggio con la sua ombra e le foglie che cadono, la selva carica di neve, il focherello di legna odorose, l’alito caldo della lepre che si fa nebbia nel freddo mattino.

L’esperienza di canto che il Rolli perseguí a lungo anche nel periodo inglese (ed anche lí aggiunse tentativi di ritmi esotici e la conoscenza di schemi melici di canzoni scozzesi o di chansons à boire francesi) non é dunque isolata, ma sempre, e sempre meglio, si unisce intimamente al gusto della rappresentazione sensibile, dell’elegante rilievo di cose e figure.

E comunque anche nelle cantate e nelle canzonette piú chiaramente dirette ad effetti di canto (con variazioni finissime nei metri e nel ritmo) il poeta tende insieme al pittorico, al piacere di una rapida, briosa presentazione di elementi pittorici della realtà, come pittorici, coloriti e briosi sono gli stessi movimenti melodici ben diversi da quelli piú puri e lineari del Metastasio.

Mentre, anche piú chiaramente, già nella prima elegia del periodo romano, il Rolli aveva tentato descrizioni e figurazioni sensibili e colorite; come questa delle ninfe che suonano avene pastorali:

E di vaghi fioretti adorne il crine,

in tai canne porgean le ninfe belle

il fiato delle labbra coralline.

E piú tardi, in questo ritratto di giovane uomo, nell’elegia quel gusto di rappresentazione sensibile, plastica e agevolata dall’esercizio dei classici, si precisava in un’esemplare anticipazione del piú sottile impegno classicistico-sensistico del Parini del Giorno:

Erto è il bel collo, e rilevato un poco

è l’animoso petto, e in giú declina

l’omero vigoroso a poco a poco.

Nella man bianca come neve alpina

non appar nodo o vena, e molle cede

ove la palma ai diti s’avvicina.

Si noti poi che nel periodo inglese il naturale gusto del pittorico e della realtà tradotta in immagini figurative e sensibili entro un colorito rilievo di figura e canto venne accresciuto dall’esperienza di una cultura piú empiristica, dal contatto con un’arte (Addison, Pope) classicistica e razionalistica, ma attentissima alla realtà sensibile, tesa a captare e tradurre in elegante, classica concisione impressioni della realtà, a descrivere nitidamente ambienti, oggetti, persone, magari in funzione satirica, ma sempre con il compiacimento della rappresentazione perspicua e ben rilevata.

Ed anche una concreta esperienza di società elegante, internazionale e spregiudicata intorno alle allegre tavole del Bain-bow-coffee-house, o nei ritrovi mondani sulle alture di Mary-le-bone, dové confortare la sua inclinazione alla gustosa descrizione, alle macchiette, alle figurine epigrammatiche in poesie conviviali insaporite da un certo gusto esotico, labili e fragili nel loro valore di rapidi schizzi, di ritrattini sottolineati dal brio del ritmo di canto. «Motti acuti e lieti carmi» è l’insegna di questa poesia di divertimento, poco impegnativa, in cui qualità di rapido e gustoso disegno e di sottolineature melodiche sono adibite ad effetti di brevi scenette umoristiche (le Meriboniane, Marziale in Albion), le quali vivono, piú che nella satira assai blanda, nel piacere di una figurina colta nei suoi tratti essenziali, di una piccola azione tradotta in immagini e ritmo coerente. E tutto un piccolo mondo di damine seducenti, di cantanti sfacciate, di giocatori, di nobili crapuloni vive in grazia di un profilo caratteristico, di un’abile sottolineatura visiva-musicale, in una generale disposizione di attenzione curiosa e divertita, piú che veramente satirica, a persone e cose.

Ma al di là di questi risultati piacevoli che servirono nell’esercizio letterario del Rolli a sciogliere la sua mano, a renderlo piú facilmente padrone delle proprie qualità di disegno, la maturità personale e storica del Rolli arcadico si rivela soprattutto negli Endecasillabi[5] e soprattutto nel gruppo piú tardo (XV-XX dell’edizione Calcaterra) pubblicato insieme alla versione di Anacreonte nel 1739 e aggiunto agli endecasillabi precedenti (pubblicati nel 1717 e nel 1733).

È soprattutto in questi endecasillabi che l’accordo rolliano fra canto e figura si sposta sempre piú verso il predominio del secondo termine e la ricerca di evidenza plastica e pittorica si mostra con piú chiarezza e con risultati piú interi: come in una fase piú omogenea di gusto e di costume (il rococò si è affermato ben al di là delle semplici riduzioni di «barocchetto») ed in una maturità del poeta che ha consumato per la massima parte la sua vena di canzonettista e piú forte sente il bisogno di quella gustosa fusione di vita moderna e di gusto classico che aveva già sperimentato nei faleci al Bathurst del 1717.

Superato il suono piú stentato e compitante dei primi tentativi

(cui dono il lepido nuovo libretto

pur or di porpora coperto e d’oro?

Solo a te amico Bathurst che suoli

in qualche pregio tener miei scherzi

[...]

e fra quegli ozi che l’alte cure

talor concedono, fai tuo diletto

quanto già scrissero gli antichi saggi

e il tempo e i barbari lasciaro intatto...)

e piú direttamente usufruite le sue letture di classici[6] anche a contatto con il classicismo inglese[7] (né si dimentichi la sua edizione della versione lucreziana del Marchetti a cui si ispirò il suo componimento a Venere), il Rolli sviluppò al massimo il suo amore per il figurativo cui adibiva il suo linguaggio classicistico-rococò.

In marmo pario greco scalpello

non fe’ di questi, vezzosa Lesbia,

collo piú candido, seno piú bello...

La gota morbida, soavemente

sotto al raccolto orecchio uniscesi

a quel tondissimo collo eminente,

onde in declivio gentile unito

alabastrino discende l’omero

verso l’eburneo braccio tornito...

Non occorrerà avvertire come la cura dell’aggettivazione, che nel Rolli si presenta precipua fin dalle prime sue poesie, e a volte persino sconcertante nella sua presenza intensa ed eccessiva[8], mostri una volontà di rilievo cosí continua da rasentare spesso un gioco di abilità e proprio, e piú rozzamente, quel tour de force di cui parlerà la Staël a proposito del Parini e che costituisce uno dei limiti piú evidenti della poetica classicistica settecentesca prima del vero neoclassicismo. Il «tondissimo collo eminente» e piú sotto l’immagine tanto cara al Rolli (e addirittura emblematica per il gusto fra costume e poetica fino al Parini) del seno femminile candido, formoso, rotondo e appuntito

(Oh colme solide e ritondette

oh d’amoroso guardo delizie

d’arbor rarissima poma dilette...[9]

Oh neve in simili due palle accolta

con due ben fisse montane fragole

dove in bel circolo il colmo volta...)

hanno un’eleganza appesantita da qualche squilibrio di linguaggio non tutto egualmente eletto e da un certo stento nella ricerca dell’evidenza completa: «dove in bel circolo il colmo volta». Per cui l’immagine mantiene qualcosa di abbozzato e di forzato nella sua volontà di raffinatezza e di visività plastica consistente e colorita, e insieme mossa da un brivido che traduce e alleggerisce il tepido soffio di una sensualità bonaria, unita ad una curiosità vivace per la femminilità nelle sue pieghe di capriccio, di desiderio, di malizia istintiva che il Rolli colpirà piú direttamente negli epigrammi di Marziale in Albion, ma che nella sua forma piú felice, tra canto e rappresentazione in movimento, coglierà nella vitalità rapida e caratteristica: «visetti lusinghieri» con «gli occhi furbi quanto belli» di «candide beltà» dall’«occhio grande languidetto», di «crudel brunetta» o di «brunetta d’occhi omicidi».

Ed è ciò che soprattutto importa osservare – a definire la poetica del Rolli e l’interpretazione in questa delle sue qualità originarie e caratteristiche, e a collocare la sua esperienza artistica come un momento essenziale nello svolgimento della poetica arcadica in una fase di incipiente classicismo rococò e ad inizio di un accordo di perspicuitas classica e di preziosa miniatura rococò sotto il segno dell’insorgente mentalità sensistica – in queste animate e lievi rappresentazioni poetiche di tenui vicende amatorie, di figurine femminili in movimento, con la loro snella e formosa bellezza, con il fascino delle caratteristiche femminili accentuato e ravvivato da una intelligenza del proprio tempo e di un costume e di un atteggiamento a cui lo stesso Rolli contribuiva: l’occhio mobile languido e furbo, il seno candido e mobile nel respiro, il labbro «umidetto» con «la morbida pelurie bionda», i piedini irrequieti e stimolanti con la loro mobilità, la mano «gentile morbida leggiadra», candida nella sua ferma bellezza o incantevole nell’aggiungere fascino nel suono di un cembalo[10] e nei rapidi paesaggi festosi e sereni[11].

Ed ecco un paesaggio inglese-arcadico, il parco di Kensington, tutt’altro che convenzionale.

Su folte e morbide minute erbette

di giovinezza il fior passeggiasi

al soffio placido di fresche aurette:

frammisti i giovani franchi amorosi

van fra le Ninfe che or liete or serie

saluti rendono dolci vezzosi.

(XIV Endecasillabo)

L’accento della ricerca poetica batte sulla rappresentazione evidente, sul rilievo figurativo in cui si incontrano la scuola dei classici, il linguaggio mediato dai loro testi (Anacreonte, Catullo, i lirici latini, non i grandi primitivi, non la «nobile semplicità omerica») e secondariamente anche il riferimento stimolante e serenatore ad una civiltà di perfezione, di piena rappresentazione scultorea («in marmo pario greco scalpello») e insieme di libera e consentita sensualità classico-moderna[12].

Ché anche quest’ultimo è motivo essenziale per la nuova affermazione classicistica: il riferimento al linguaggio classico e al mondo che dentro a quello si era espresso ricco di suggestioni e di stimoli, tutt’altro che freddo e sterile, è sentito ben diversamente che nel Seicento in cui vige la teoria capziosa e retorica del perfezionamento e del «nuovo mondo» cercato retoricamente sulle ali dei classici oltre i quali spiccare un piccolo volo con il di piú dell’acutezza e della grandiosità metaforica, e si basa su di un accordo – non importa quanto velleitario e quanto diverso dal piú profondo classicismo del secondo Settecento e del primo Ottocento – con le proprie aspirazioni ad una vita e ad un’espressione lieta e vivace: otium, fruizione saggia e piena dei beni vitali riassunti nella bellezza femminile perfetta e sensibile, ammirabile e piacevolmente stimolante, e nella natura come sfondo omogeneo e saldo al proprio vivere mosso e piacevole e come fondo di sensazioni amabili[13].

Come il classicismo serviva, confluendo col razionalismo, a costruire e sorreggere in linee precise e schematiche, decorose ed «eroiche» di «virtú» e di saggezza di misura, la scenografia e il verso melodrammatico del primo Settecento, cosí, dal seno dell’Arcadia ma idealmente in anticipo di una fase successiva di gusto anche se con quella prima collegata e spesso fusa, si precisa con il Rolli meno cantabile[14] una utilizzazione della lettura dei classici, un’interpretazione del classicismo proposto dal Gravina (e il Rolli, si ricordi, fu scolaro del Gravina ed echeggiò piú volte precisi motivi graviniani sulla origine e funzione della poesia e sull’utilità del verso sciolto e sulla esigenza mitica della poesia) che punta sulla rappresentazione perspicua e sensuosamente evidente:

Gentile, morbida, leggiadra mano

cui fer le proprie mani d’Amore

piú dell’avorio candida e tersa,

sparsa di varie pozzette molli

le cui flessibili lunghette dita

dolce assottigliano in unghie vaghe

arcate, lucide, rubicondette...

(XVII)

Eviterei di parlare di arte squisita[15], perché allo sforzo evidente di una rappresentazione esauriente ed elegante si aggiunge una forzatura leziosa e sorridente che, mentre prova la permanenza naturale di forme piú facili (quel «rubicondette») e canzonettistiche, mostra il limite di un gusto e di una forza che non giunge alla squisita coerenza di consimili espressioni pariniane o anche di minori letterati nella fase di secondo Settecento.

Forme piú generiche, costruzioni sforzate, cadenze ancora facilmente canore e sfumature di vezzo lemeniane sono il limite di una ricerca di miniatura perfetta e vivace che il Rolli tentò di là dalla misura di canzonetta, seguendo un essenziale motivo della sua personalità avida di rappresentare e non solamente di cantare, di dare espressione musicale e visiva, colorita e plastica alle figure della sua fantasia edonistica, della sua gioia di vivere in condizioni piacevoli di amore e di ammirazione.

Non che si debba valutare il Rolli nel suo particolare equilibrio di canto e figura solo in confronto all’arte del Parini o alla tecnica del Savioli, ma certo vanno indicate la sua singolare posizione diversa da quella arcadica metastasiana, la sua accentuazione di classicismo per fini di rappresentazione elegante, mossa e perfetta[16], e lo sviluppo della sua poetica verso forme che nel brio rococò, nella spigliata morbidezza di linee curve e capricciose, importano una tendenza all’evidenza di figure nell’uso della perspicuitas classica, nell’aggettivazione precisa e pregnante[17].

Artista ormai del classicismo rococò (e la sua esperienza tutt’altro che provinciale poté fornirgli suggestioni di quello stile nei suoi inizi e nel suo svolgersi dal barocco), il Rolli ne sentí con geniale istinto il gusto del capriccio e della grazia vivace, che mentre reagiva intimamente al fasto barocco ne riduceva la libertà inventiva in proporzioni piú minute e piacevoli e mentre reagiva al classicismo piú severo con la sua asimmetrica volubilità – pur razionale e calcolata – accoglieva gustosamente la lezione di perspicuitas rappresentativa, la consistenza di figure precise e sensibili. E, scolaro del Gravina, assiduo lettore dei classici, pronto a rimproverare agli Arcadi una scarsa fedeltà agli antichi, ne regolava gli slanci piú estrosi in una sua politezza formale, nella difficile facilità paurosa di una modernità inerudita, di un semplice istinto («o quanto questa è difficil facil maniera», dice nel preambolo del 1753), e mirava a controbilanciare il suo vivo amore per la realtà moderna con tentativi di emulazione dei classici persino nella creazione, ancora incerta, ma significativa, di metri «barbari»[18] a cui la lingua italiana «nobile del Lazio figlia» gli sembrava particolarmente adatta.

E alla fine della sua vita aveva cercato di arieggiare una piú composta e seria saggezza oraziana: tanto questo settecentista aveva bisogno di riferirsi persino negli atteggiamenti della vita, tutt’altro che privi di spontaneità e di impegno, ad esempi illustri e nobilitanti, all’appoggio di uno «stile»[19]. Ma meno importa quest’ultima giustificazione del suo gusto e questo sviluppo stanco della sua poesia nelle «tudertine», in cui pure si può isolare una suggestiva e calma contemplazione del proprio ritorno dall’Inghilterra:

Or non respiro

aer umido e freddo e denso fumo;

ma di colli a cui dier l’utili piante

Bacco, Cerere, Pallade e Pomona,

l’aria leggera sott’azzurro cielo.

Piú importa, concludendo, confermare come nello sviluppo della poesia rolliana le posizioni graviniane parzialmente accolte scolasticamente siano risolte in un compromesso efficace ed indicativo per «il piacere degli orecchi» mai rinnegato, ma inverato in un canto ben ancorato ad una esigenza di espressione di gioia, di letizia edonistica, e ad una forma di sentimento risolto in figura, in rappresentazione sensibile e concisa secondo un linguaggio rococò-classicistico, e come – mentre questa precisazione sulla poetica rolliana serve a stringere meglio il carattere della sua poesia che non si esauriva nella preminenza del canto – l’esigenza del rilievo a cui l’uso del linguaggio classicistico serve e stimola in accordo con una incipiente esigenza sensistica diffusa nel piccante miniaturismo rococò (sfumatura di base sensibile, mediato gusto di realtà per quanto depurata e raggentilita come nelle tecniche estreme delle statuine di Capodimonte o di Nynphenburg), il crescente riferimento alla civiltà artistica antica rappresentano un momento essenziale nello sviluppo della poetica arcadica in direzione classicistica, come anticipo di una nuova fase del gusto classicistico chiaramente attuata dal Savioli e portata su un piano piú alto dal primo Parini. Quando il classicismo nella sua costante di aspirazione e di pretesto (spesso semplice scongiuro di rito contro ritorni secenteschi e licenza ad ogni genere di esperienza letteraria) venne a vivere in funzione di una nuova sintesi letteraria, di una poetica fondata su diversi elementi culturali: non solo il razionalismo cartesiano cui il Gravina aveva aderito e reagito costituendo la piú ricca e profonda riserva di motivi validi per il neoclassicismo e per il piú largo sviluppo di fine Settecento e di cui si era soprattutto nutrito il saggio poeta del canto patetico, il Metastasio; ma il sensismo illuministico nella sua accezione piú larga e volgarizzata poi nelle sue diverse sfumature.

Mentre d’altra parte il particolare impasto rolliano di canto e di figura rappresentò sempre nel Settecento una direzione, un richiamo piú vivo dello stesso richiamo metastasiano e venne a mediarsi con quello, nella sintesi del Savioli non priva di soluzioni melodrammatiche e di brevi esiti musicali costretti in gracili schemi di struttura, ma prevalentemente tesa al figurativo.


1 L’adesione piú esplicita al didascalismo severo è nelle prime poesie come La poesia a G.G. Orsi che è prima del 1712.

2 Liriche, ed. a cura di C. Calcaterra, Torino 1926, p. 65.

3 L’eredità melica secentesca e lemeniana rilevata dal Calcaterra (in Poesia e canto, Bologna 1951) è però soggetta all’identificazione della nuova poetica arcadica, del suo «filtro» razionalistico e classicistico e a quello del prevalente gusto figurativo del Rolli.

4 G.V. Gravina, Ragion poetica, ed. a cura di P. Emiliani-Giudici, Firenze 1867, p. 9.

5 Sugli Endecasillabi punta anche il Fubini nelle fini pagine dedicate al Rolli nella sua introduzione ai Lirici del Settecento, Milano-Napoli 1959.

6 Alla Maratti scriveva nel 1732: «e coloro dicono che io son degenerato? son degenerato ora che mi veggono piú ne’ grandi antichi nostri, che ho continuamente per le mani per propria professione nonché per diletto?» (Galli, Nel Settecento. I poeti Zappi e Maratti Zappi, Bologna 1925, p. 111).

7 Va calcolata poi nell’acquisto di scioltezza e di dominio nel verso non canzonettistico (ma a cui l’uso delle canzonette e dei versi brevi aveva dato una ricchezza di cadenze e di suoni) la traduzione del Paradiso perduto compiuta fra il 1717 e 1735 e fortemente fedele al testo («Troppo letterale, se vuolsi», dice lo Zucchetti, Paolo Rolli e la sua attività letteraria negli ultimi venti anni di vita, in «Convivium», 1930, p. 552). Si ricordi che in Inghilterra il Rolli si trovò in contatto con una nuova ondata di classicismo rappresentata dall’Addison e dal Pope, la cui importanza andrà sottolineata nella sua incidenza generale specialmente nella fase di metà Settecento. La versione del Paradiso perduto è importante non solo per la generale mediazione settecentesca di testi stranieri nella nostra lingua letteraria (e in Rolli una spregiudicata curiosità si congiungeva ad una onesta fedeltà di traduttore), ma per l’esercizio di verso sciolto che l’accomuna alle versioni di classici come quella lucreziana del Marchetti. Esercizio basato su di una valutazione graviniana che si può sentire molte volte risonare durante il secolo e che anzi costituisce uno dei motivi conduttori del classicismo settecentesco e del vero e proprio neoclassicismo: «Osservino (gli inglesi) qual bellezza di varia armonia aggiungono al nostro (verso sciolto) gli sdruccioli ed i versi tronchi, non solamente nell’armonica varietà delle terminazioni ma talvolta nel material suono esprimente la cosa nel suo stato e nel suo movimento; il che di gran lunga maggior grazia contribuisce nella preminenza che ha sopra il rimato, cioè in quella gran libertà del periodico giro delle sentenze nell’innesto di un verso con l’altro per cui le medesime cominciano e finiscono dovunque si voglia; e per la quale tal verso è però tanto piú difficile a farsi armonioso e sublime, quanto la sua sonorità deve sorgere dalla variata armonica tessitura delle parole; e la sublimità deve consistere nella continuata grandezza de’ sentimenti, nella scelta locuzione e nella non mai negletta vivezza delle espressioni, senza appoggio di rima che dà talvolta non piccolo aiuto alla mancanza dell’armonia e alla bassezza delle idee» (Vita di John Milton). Dichiarazione davvero notevole all’inizio del secolo, appoggiata come è agli spunti graviniani (e viva fino al Foscolo) e tutt’altro che convenzionale quando si osservi la particolare accentuazione della capacità di rappresentare le cose in movimento, cosí corrispondente ad una concreta preoccupazione rolliana.

8 Come nel secondo degli endecasillabi, poi ripudiato nel 1753, in cui gli aggettivi si seguono a coppie simmetriche occupando praticamente e idealmente quasi tutto lo spazio del verso: «non per le livide vecchie rabbiose / non per li rigidi sacri custodi / non per le vigili caste vestali ... voi solo amabili ninfe vezzose...» (ed. cit., p. 6).

9 Già nel V degli endecasillabi: «le poppe candide ricolme e belle»; ma era espressione non seguita dal tentativo di rappresentazione piacevole ed elegante che segue nel XVI.

10 Sovra cembalo se move

la maestra mano ardita

sorgon sotto a bianche dita

melodie rapide e nuove

..., se veloci quei piedini

muovon danza a bel concento

si direbbe che d’argento

tocco è il suol di martellini.

11 Ogni eco di malinconia è assente e proprio il celebre inizio di Solitario bosco ombroso può esser preso come simbolo efficace di una sentimentalità cosí serena che quell’accenno di solitudine e di tenue oscurità rappresenta la tinta piú scura che questa poetica del «piacere di vivere» potesse adoperare.

12 Le «candide mani», il «candido seno» sono legati anche ad un costume che isolava ed evidenziava quei punti essenziali della bellezza femminile, e passarono con la loro suggestione fino al Leopardi che proprio nel Risorgimento, cosí significativamente echeggiante di Arcadia, rilevava con nuovo fremito la «candida ignuda mano» e il «bianco petto».

13 Inutile quindi sdegnarsi contro l’inadeguatezza di questi piccoli uomini di un Settecento rococò ad una vera comprensione dei motivi piú complessi dei classici come fa il Carducci: «I facili contemporanei lo paragonavano ad Anacreonte, a Catullo, a Tibullo; ma l’amabile saggezza del cittadino di Teo, il sentimento profondo dell’avversario di Cesare, la tenerezza e dignità del cavaliere romano e la serenità dell’arte antica non erano né di quest’uomo né di quei tempi» (Poeti erotici del sec. XVIII, Firenze 1869, p. XLI). Giusto, ma ciò non toglie né la sincerità di quell’aspirazione che occorre interpretare nella sua esigenza nuova che a noi interessa, né – in quella convenzione secolare per cui ogni azione si ammantava della toga e del pallio – lo stimolo efficace che a loro modo già quei letterati traevano da una loro lettura dei classici che dopo il Settecento e il primo Ottocento vien sempre piú facendosi saltuaria ed occasionale (e pur recuperata per esigenze piú particolari e per lo piú private).

14 E giustamente un «facilista» meridionale, il De Rogati, lo troverà inferiore al Metastasio quanto al risultato di canto.

15 Carlo Calcaterra (nota a questi versi nell’ed. cit.).

16 Il Rolli sembra anticipare, dentro la stilizzazione piú timida e in un senso della realtà tanto piú limitato e sommario, anche la tendenza a quadretti di vita privata e familiare, come questo finale di un’ode al Mitchel:

Alla gentil consorte

intenta al bel lavoro

narri poi di Medoro

l’inaspettata sorte;

mentre il tuo pargoletto

onde sei pur felice

scherza con la nutrice

e palpa il colmo petto.

17 Persino nella forma piú restia del sonetto il Rolli aveva provato il suo primo accordo di canto e di rilievo sensuoso, come nel sonetto 24 del periodo romano.

18 In tal senso il Rolli fu considerato precursore del Fantoni e anche questo è certo una conseguenza della aspirazione classicistica del secolo. Per quanto questi tentativi metrici possano apparir deboli e suscettibili del giudizio dato dal Foscolo a proposito del Fantoni, non è senza significato che con il Rolli compaiano quelle forme piú diffuse di saffiche che nel secondo Settecento, improntate alla maestà pariniana, segneranno addirittura una via di contenuta eloquenza neoclassica.

19 Ed effettivamente quello neoclassico fu, in certo senso, l’ultimo «stile» e l’accusa dei neoclassici anche piú grandi al romanticismo fu spesso quella di non essere uno «stile», di non valere circolarmente per un’espressione generale delle arti.